Dentro le politiche attive: l’arte di connettere imprese, talenti e comunità
In un mondo del lavoro sempre più segnato da trasformazioni rapide, digitalizzazione e nuove fragilità sociali, le politiche attive rappresentano un terreno cruciale di equilibrio tra efficienza e umanità.
A ricordarcelo, in questa Training Review di novembre, è Marta Facciolli, una voce autorevole nel settore delle politiche attive, impegnata da anni a coniugare risultati e qualità dei servizi in contesti multinazionali.
Con lei abbiamo parlato del valore delle relazioni nelle politiche attive, delle competenze necessarie per chi ogni giorno accompagna persone e imprese nel cambiamento, e del futuro di un settore che — se ben interpretato — può diventare un vero motore di innovazione sociale e territoriale.
TR: Le politiche attive del lavoro vivono sempre tra due poli: i numeri, i risultati, i contratti… e dall’altra parte le storie, i volti, le fragilità. Nella tua esperienza, come si fa a tenere insieme queste due dimensioni?
MF: Nella mia esperienza, il vero equilibrio nelle politiche attive del lavoro nasce quando i numeri non sono un fine, ma la naturale conseguenza di un lavoro di qualità fatto con le persone. Spesso si rischia di dare priorità esclusiva a target, KPI e rendicontazioni, dimenticando che dietro ogni indicatore c’è una storia umana, ricca di esperienze personali, che merita di essere valorizzata. Le politiche attive funzionano davvero quando oltre a misurare le performance riconoscono il valore relazionale, l’ascolto e la personalizzazione dei percorsi.
Nelle politiche attive convivono infatti due anime che, se non ben governate, rischiano di diventare antitetiche: quella quantitativa, fatta di numeri e risultati misurabili, e quella qualitativa, che si prende cura delle persone reali, con le loro unicità, aspirazioni e difficoltà. La chiave è integrare queste due dimensioni attraverso una leadership orientata al senso di ciò che si fa e non solo al dovere.
Un professionista che sa mantenere questo equilibrio non considera il risultato una semplice “attivazione”, ma un passo importante in un percorso di crescita e inclusione. Si tratta di avere il coraggio di lavorare sulla qualità, che può sembrare banale, ma che in realtà è la base solida su cui si costruiscono i risultati numerici.
TR: Chi lavora nelle politiche attive si trova spesso a fare da equilibrista tra obiettivi da raggiungere e persone da aiutare. Secondo te, quali capacità servono davvero sul campo per riuscirci al meglio!?
MF: Essere “equilibristi” nelle politiche attive significa muoversi in un contesto complesso, dove si incrociano esigenze diverse — istituzionali, aziendali e personali.
Le competenze tecniche servono, ma non bastano. Sul campo contano soprattutto competenze trasversali come, ne cito solo alcune: ascolto attivo, intelligenza emotiva, pragmatismo, orientamento al risultato (inteso come costruzione di valore nel tempo, non semplice raggiungimento di un obiettivo numerico), la resilienza (che permette di reggere la pressione degli obiettivi, mantenendo la qualità dell’intervento) e l’empatia
Prestare attenzione autentica all’interlocutore, non limitandosi a recepire le parole ma cogliendo anche i segnali non verbali, le emozioni e i bisogni. È la capacità di sospendere il giudizio e di fare domande mirate per comprendere davvero l’altro, creando così un clima di fiducia che favorisce la costruzione di soluzioni creative e condivise coerenti con le richieste del mercato
Ovviamente non posso non citare la capacità di mediazione, perché ogni giorno ci si muove tra aspettative divergenti – delle istituzioni, delle aziende e dei beneficiari.
Chi riesce a mantenere il giusto equilibrio tra tutte queste competenze diventa una figura di riferimento, capace di accompagnare la trasformazione personale e quella organizzativa.
TR: Dal lato delle imprese: negli ultimi anni, tra grandi dimissioni e carenza di profili qualificati, cosa hai visto cambiare nella domanda delle aziende? E come questo influenza il modo in cui si propongono le politiche attive?
MF: Negli ultimi anni ho osservato che le imprese chiedono sempre più competenze trasversali, adattabilità e motivazione. Il fenomeno delle grandi dimissioni e la difficoltà di reperire profili qualificati hanno spostato il focus dalla selezione “perfetta” al re-skilling e up-skilling interno.
Le politiche attive devono quindi proporre soluzioni più flessibili, orientate alla formazione continua, ai matching personalizzati e alla collaborazione diretta con il tessuto produttivo. Oggi è indispensabile che dialoghino costantemente 3 anime: orientamento, formazione e inserimento lavorativo.
L’approccio vincente oggi è quello integrato: ascoltare i fabbisogni reali delle imprese, anticiparli con percorsi formativi mirati e accompagnarli con servizi di consulenza efficace.
TR: Oggi chi lavora nelle politiche attive deve avere anche competenze commerciali: non è più solo supporto ma anche capacità di proporre soluzioni alle imprese. Secondo te, quali abilità dell’area sales fanno davvero la differenza in questo lavoro?
MF: Chi opera oggi nelle politiche attive del lavoro deve essere consulente di sviluppo per le imprese.
Le abilità sales che fanno la differenza sono quelle tipiche di un consulente B2B di alto livello:
- Ascolto analitico: identificare e comprendere non solo ciò che l’impresa chiede, ma ciò di cui ha davvero bisogno, anche se non lo sa ancora.
- Comunicazione di valore: saper raccontare i servizi e le misure pubbliche in modo orientato al business, non come “bandi”, ma come leve strategiche per la crescita.
- Gestione della relazione: costruire fiducia, non vendere soluzioni spot ma personalizzate. Le politiche attive diventano così parte del sistema HR aziendale.
- Infine la conoscenza del mercato: fondamentale per proporre soluzioni efficaci, direttive e competitive
In sostanza, la componente commerciale deve essere “consulenziale”: più partnership che vendita.
TR: Le imprese si aspettano professionalità e servizi di qualità, i candidati cercano ascolto e opportunità concrete. Quali pratiche o approcci hai visto funzionare meglio per costruire fiducia con entrambe le parti?
MF: Come dicevo prima la fiducia è il vero capitale delle politiche attive.
E mi ripeto con le imprese, funziona quando ci si propone non come fornitori, ma come partner: chiarezza sui tempi, report puntuali, e soprattutto trasparenza sugli esiti — anche quando non sono positivi. Le aziende apprezzano chi mantiene la parola data e la concretezza poichè il tempo è prezioso, non va sprecato. Agire con chiarezza e sincerità significa rispettare sé stessi e gli altri, senza inutili perdite.
Anche qua mi ripeto con i candidati, invece, la fiducia nasce da un ascolto autentico. Spesso arrivano persone demotivate, in questi casi, il valore aggiunto è dare loro una prospettiva di supporto concreta, non solo un colloquio. La personalizzazione dei percorsi e la restituzione di feedback sono pratiche che fanno la differenza.
Urge superare la logica della frammentazione.
TR: Se dovessi dare tre consigli concreti a un operatore delle politiche attive che vuole essere più efficace — sia con i candidati che con le aziende — quali sarebbero secondo te le cose da non dimenticare mai?
MF: E qua faccio fatica a contenermi, io che potrei parlare per ore e ore senza stancarmi mai di come questo lavoro sia incredibilmente ricco, ma credo di aver chiarito i concetti precedentemente. Quindi lavorerò su me stessa e sintetizzerò con 3 elementi immancabili:
1. Aggiornati, studia e continua a coltivare la tua curiosità ogni giorno il mercato del lavoro cambia ogni giorno; restare fermi significa perdere connessioni. Un professionista competente sarà meglio seguito e compreso dal suo interlocutore
2. Vivi le loro emozioni mentre ascolti attivamente chi hai di fronte e sii positivo : capirai e troverai soluzioni per il candidato e per le imprese
3. Cambia e mettiti in discussione: ogni persona è diversa e prima di essere chiari ed onesti con gli altri bisogna esserlo con se stessi
TR: Guardando avanti: come immagini evolverà il ruolo delle politiche attive nei prossimi anni? Quali sfide e quali opportunità vedi all’orizzonte per chi lavora in questo settore?
MF: Nei prossimi anni le politiche attive dovranno sempre più personalizzate e integrate con la formazione digitale. L’intelligenza artificiale supporterà il matching e l’analisi predittiva dei fabbisogni, ma il ruolo umano resterà centrale per l’orientamento e la motivazione.
Le sfide principali saranno:
- colmare il mismatch tra domanda e offerta,
- includere categorie fragili in modo strutturale.
L’opportunità più grande sarà quella di far evolvere le politiche attive da strumento di “ricollocazione” a motore di sviluppo territoriale e innovazione sociale.
- costruire modelli di governance locali più agili e collaborativi.
Le opportunità, invece, sono enormi: le politiche attive possono diventare il motore di una nuova economia sociale del lavoro, in cui impresa, territorio e persona crescono insieme.
Il futuro operatore dovrà essere un abile “connettore di ecosistemi”, capace di tradurre le trasformazioni economiche in percorsi di sviluppo umano e professionale sostenibile
Con questo spirito, ho provato a mettere nero su bianco alcune riflessioni, frutto di anni passati tra aziende, candidati, e referenti territoriali italiani.
Non sono verità assolute, ma prospettive di chi crede nelle e che le politiche attive del lavoro debbano essere molto più di un adempimento burocratico: ma un indispensabile uno strumento personalizzabile di sviluppo e di comunità.
Dalle parole di Marta emerge una visione lucida e profonda: le politiche attive funzionano davvero solo quando mettono al centro la qualità delle relazioni, non la quantità degli adempimenti.
Essere professionisti in questo ambito significa saper ascoltare, mediare, proporre soluzioni concrete, ma anche coltivare curiosità, empatia e senso del valore.
Nel futuro che ci attende, tra intelligenza artificiale e nuovi modelli di governance del lavoro, resterà decisivo proprio questo: l’equilibrio tra tecnologia e umanità, tra dati e storie, tra performance e senso.
Un equilibrio che, come ci ricorda Marta, non si insegna in teoria: si costruisce ogni giorno, con la competenza di chi crede che le politiche attive del lavoro non siano solo un servizio pubblico, ma una forma di cura per le persone e per le comunità.

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