Fuori dall’aula, dentro la crescita: cosa ci insegna davvero la formazione outdoor
Quando si parla di apprendimento trasformativo, non si può ignorare il contributo di Marina Florean che ha dedicato più di trent’anni della sua vita alla formazione senza mai perdere fiducia nel suo valore profondo nel promuovere cambiamenti significativi nelle persone e nelle organizzazioni.
L’abbiamo incontrata per raccogliere un contributo autorevole sul nostro tema del mese, la formazione Outdoor.
“Marina, partiamo dalle basi: che cos’è davvero la formazione outdoor?”
È una metodologia che usa la metafora dell’ambiente esterno per attivare processi interni. Non si tratta di fare giochi o escursioni per svagarsi, ma di uscire da sé per rientrare in sé stessi in modo diverso. L’elemento naturale o urbano serve da catalizzatore: ti disorienta quanto basta per riattivare l’attenzione, la collaborazione e l’ascolto profondo.
“Spesso si pensa che l’outdoor serva a ‘fare team’. È davvero solo questo?”
Il team building è solo uno dei possibili obiettivi. Il vero potenziale dell’outdoor emerge quando lo si usa per lavorare su temi come la leadership, la fiducia, la gestione del rischio, la comunicazione autentica. Il contesto esterno ti costringe a reagire in tempo reale, e questo rende visibili abitudini, resistenze e dinamiche che in aula rimangono spesso mascherate.
“Qual è la differenza tra un’esperienza outdoor ben progettata e una mal progettata?”
Un’esperienza ben progettata ha una cornice chiara, obiettivi precisi e momenti di riflessione guidata. L’errore più comune è pensare che basti ‘fare qualcosa di diverso’ per generare apprendimento. In realtà, serve una regia invisibile ma presente: bisogna saper leggere il gruppo, usare il tempo e lo spazio come strumenti formativi, lasciare accadere… ma anche saper chiudere il cerchio.
“Quando invece vedi che queste attività falliscono, secondo te da cosa dipende più spesso?” Quando falliscono, è quasi sempre perché si parte dal contenitore, non dal contenuto. Si sceglie l’ambientazione, l’esperienza ad effetto, magari la location ‘instagrammabile’, ma si dimentica il senso. Un altro errore è voler ottenere tutto e subito. La formazione, anche quella outdoor, richiede tempo, preparazione, ascolto. E poi c’è un punto che per me è fondamentale: chi guida il gruppo deve aver fatto prima un lavoro su di sé. Se porto nel bosco le mie insicurezze, la mia voglia di dimostrare, il bisogno di controllo… si percepisce. Ho imparato con gli anni che meno metto al centro me stessa, più spazio si crea per l’apprendimento degli altri.
“Se dovessi descrivere il potenziale della formazione outdoor con una sola parola, quale sarebbe? E perché proprio quella?” Direi “essenziale”. Perché ti riporta a quello che conta, senza fronzoli. Sei fuori, a contatto con qualcosa che non puoi governare — il tempo, il sentiero, gli altri. E lì, lontano da slide e comfort zone, riaffiorano cose semplici ma profonde: la capacità di osservare, la fatica condivisa, la gratitudine per un gesto sincero. Quando togli il superfluo, resta ciò che vale. E lì, secondo me, avviene la formazione vera.
Dalla piacevole chiacchierata con Marina una conclusione possibile è che la formazione come leva di cambiamento è sempre possibile e auspicabile e il contesto in cui la si fa cambia la forma ma non la sostanza per cui, laddove c’è passione, competenza e motivazione ci può essere una formazione che serve davvero. L’outdoor quindi, se fatto nel modo giusto, non è affatto solo una parentesi ricreativa ma un ritorno all’essenziale, dove si apprende non “su” qualcosa, ma “attraverso” qualcosa.
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