Senza far niente si pensa troppo: la perdita del lavoro e il pensiero che crea o distrugge
Sono oramai vent’anni che dedico una parte della mia attività alle persone che per un motivo o per un altro perdono il lavoro e, crisi o non crisi, mi è sempre capitato di trovare molti che mi riportano un disagio derivante dall’improvvisa comparsa nella loro vita di uno spazio e di un tempo che non si sa come riempire, un vuoto a cui non si era abituati. Quando si lavora le giornate sono piene, la fretta impera insieme all’esigenza di efficienza e efficacia in quello che si fa, si è delle macchine programmate per ottenere risultati e non c’è spazio per il pensiero che non produce, ogni cosa è finalizzata all’azione. Quando tutto questo finisce invece, dopo qualche giorno in cui a volte si resta spettatori piacevolmente colpiti da questo spazio che improvvisamente si apre nelle giornate prima dedicate al lavoro, si torna spesso a rimpiangere la vita precedente, perché nel mentre qualcosa è accaduto: il pensiero si è fatto strada nella mente portando con sé un carico di inquietudine e preoccupazione.
Chi perde il lavoro deve affrontare un cambiamento nella propria vita, il che può essere traumatico ma può offrire anche opportunità; ho visto centinaia di persone che sono riuscite a crearsi una vita più appagante di quella che avevano prima semplicemente scegliendo di dedicarsi a qualcosa che desideravano senza sottostare all’imperativo categorico del dover lavorare a tutti i costi, comunque e dovunque. Chi l’ha fatto ha saputo utilizzare al meglio il tempo che gli è stato restituito dopo aver perso il lavoro, ha compreso come riempire nel modo giusto lo spazio ottenuto dopo aver sgomberato la sua vita da tutte quelle cose che si devono fare, mettendoci dentro quelle che si vogliono fare, ma questo non capita a tutti.
Il sistema in cui viviamo tende a considerare l’inattività una malattia da cui allontanarsi in fretta perché tutto è finalizzato alla produzione, all’efficienza, al dinamismo, al risultato. Ce lo insegnano fin da piccoli, ci sono bambini che a 7 anni hanno l’agenda piena come quella di un manager quarantenne, non hanno spazio per annoiarsi, hanno la vita pianificata dai loro genitori in ogni dettaglio, tutto è programmato in funzione di qualcos’altro e non c’è spazio per la riflessione.
Crescendo in questo modo è naturale impostare le proprie vite ripetendo lo schema, è un automatismo che ci viene inculcato quando non c’è senso critico per cui appare come l’unica e sola verità: produco quindi vivo. Se non ci si accorge che c’è dell’altro, quando questa iperstimolazione incessante a cui ci sottoponiamo cessa, la sensazione più immediata è quella del vuoto, del vuoto che noi stessi abbiamo creato, eliminando dalla vita le cose che invece lo riempiono il vuoto, come per esempio le relazioni autentiche, il contatto con le proprie emozioni, l’amore, la passione, la curiosità, la bellezza, l’impegno e altre cose che non sono necessariamente funzionali a qualcos’altro ma vanno bene così come sono. Cosa c’è dunque dentro questo vuoto che provano le persone dopo aver perso il lavoro? C’è tutto quello che è stato a poco a poco rimosso dalla coscienza perché è stata adottata, più o meno consapevolmente, una strategia di efficienza impostata sull’eliminazione delle domande a cui non c’è risposta, le domande che non producono, che non portano a nulla se non a pensare. La vita così funziona meglio, tutto è finalizzato a qualcosa, per cui c’è un senso e un significato insito in ogni azione compiuta, tutto è diretto al raggiungimento di un fine, non c’è spazio per l’interrogazione circa il senso di quello che facciamo, non c’è abbastanza tempo per farlo. Ma ecco che a un certo punto questo tempo arriva e improvvisamente porta con sé, come un’onda gigantesca che si riversa su una spiaggia, il carico di domande che avevamo abbandonato alla deriva e che ora tornano tutte insieme. Di fronte a questo, c’è chi non accetta e si adopera per ritornare immediatamente alla vita precedente e chi invece apre gli occhi e osserva, cammina sulla spiaggia e raccoglie i pezzi, cerca di metterli insieme, compone un quadro d’insieme provando a trovare connessioni con ognuno di essi, cerca di indovinare un significato e nel mentre si incammina in un’altra direzione.
Il pensiero genera inquietudine, è nella sua natura, l’espressione latina rivela bene quale sia il senso più intimo nell’atto del pensare, il Cogito ergo sum Cartesiano può tradursi anche come dubito, e quindi esisto, per cui la vita di certezze a cui ci stiamo abituando per esorcizzare la paura del vuoto è destinata a crearne uno ancora più grande che è generato dalla rinuncia a quella parte di noi che per sua natura rivolge l’attenzione ad altro rispetto alla produzione e all’efficienza, a quella parte di noi che si nutre del pensiero, non lo scaccia come fosse un sintomo di malessere o un segno di debolezza ma lo accoglie come l’unica possibilità per ritrovare l’unità e l’armonia con noi stessi e con gli altri aiutandoci a ritrovare il percorso giusto da realizzare nella vita che scegliamo di vivere perché è quella che vogliamo, anche se non è quella che tutti dicono di volere.
Distinguersi e fare la differenza ritrovando la propria unicità è un percorso che rafforza e valorizza le caratteristiche di ognuno consentendo di ottenere più risultati e più successo nella vita proprio perché si apprende come riconoscere il proprio valore, ma per farlo occorre confrontarsi con la dimensione più intima del proprio essere, senza paura, lasciando emergere pensieri ed emozioni e confrontadosi con essi lasciandosi guidare verso decisioni che coinvolgano tutte le parti di cui siamo fatti, senza escludere nessuno.
Chi perde il lavoro e desidera tornare alla vita precedente, perde due volte, il lavoro che non ha più e la vita che lo aspetta, per cui l’invito è a scommettere, che quello che c’è in questo tempo e in questo spazio che si ottiene perdendo il lavoro sia qualcosa di buono e di utile, a scommettere che sia così, che vuol dire puntare qualcosa sulla possibilità che davvero possa essere così; in questo modo al contrario di prima, si vince due volte, una perché se si confida nella possibilità che qualcosa di buono possa giungere di conseguenza ci si adopera perché questo accada, quindi si esce dall’inattività, due perché muovendosi e ricercando le condizioni perché le cose accadono è molto probabile che queste accadano davvero, mentre se non si fa nulla è pressoché sicuro che nulla accadrà perciò, in conclusione, auguro a tutti una giornata libera in cui far accadere le cose che più si desiderano.
Lascia un commento