Smart work: la rivoluzione è iniziata

Smart work: la rivoluzione è iniziata

Le notizie di stampa ci parlano di una rivoluzione del mondo del lavoro prendendo spunto da quanto avvenuto in BMW: le persone vengono pagate in base alle telefonate e alle mail fatte anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Anche da noi oltre che all’estero si parla di smart work, di lavoro agile, ecc. Siamo abituati a considerare il lavoro come l’esecuzione di una serie di compiti perché il modello che abbiamo in mente è ancora quello “industriale”.

La produzione di un qualsiasi bene materiale presuppone infatti che sia svolta in un unico luogo, durante un tempo prefissato e secondo un preciso modello organizzativo, progettato e predisposto in precedenza.

La maggior parte dei lavoratori però oggi non lavora maneggiando oggetti fisici bensì informazioni che possono essere trattate in ogni luogo e in tempi non definiti. Per giunta anche il vincolo organizzativo è praticamente saltato. Tempo, luogo e organizzazione sono rimasti vincoli legati alla produzione di beni materiali o di servizi che presuppongono la presenza (es. un negozio fisico a differenza di un negozio che opera via Internet).

Quanto detto non deve sembrare eccessivo, sulla base della considerazione che se togliamo il modello organizzativo non possiamo più dire di essere di fronte ad un’azienda, considerato che l’imprenditore è proprio colui che organizza la produzione. Infatti anche questo è cambiato.

Il lavoro è divenuto così complesso che l’operatore non è più investito di compiti seriali o ripetitivi, precisamente identificabili e rappresentabili (comportamenti fisici) ma è investito della soluzione di un problema che può riguardare il cliente, il servizio o il prodotto che eroga, l’azione di sviluppo commerciale che presidia ecc.

Risulta quindi molto più efficiente investire il lavoratore di un risultato da raggiungere lasciando a lui la procedura per come risolverlo piuttosto che definire esattamente (cosa impossibile) ogni singola azione che deve compiere.

Ogni problema, anche se simile, è diverso da tutti gli altri per cui è necessario mettere in atto metodi parzialmente diversi per risolverlo. Occorre affidarsi all’iniziativa e all’intelligenza della persone per essere efficienti, e spesso non basta, bisogna spesso contare sulla sensibilità personale, sul tratto, sulle capacità di comunicazione e addirittura sull’entusiasmo delle persone per conseguire i risultati.

Tutte queste cose non sono “organizzabili” nel senso tradizionale del termine e ciascun operatore le deve tirar fuori da dentro di sè. Se ad esempio devo scrivere un articolo, mi potranno dare delle indicazioni di massima, dei suggerimenti e delle suggestioni, ma il modo con cui verrà scritto lo deciderò io (come impostarlo, quali termini usare, quali corde emotive toccare, ecc.).

 

Tutto questo non deve necessariamente essere fatto né in un tempo né in un luogo determinato e viene meno anche, perché non rappresentabile, il modello organizzativo. Siamo nel mondo del lavoro “per risultati attesi”, così come oggi viene definito. Si definiscono con chiarezza i risultati mentre il modo per conseguirli è demandato a ogni singolo lavoratore.

Certo, rimane il problema del controllo. Infatti, come facciamo a controllare se una persona lavora o meno? E qui torniamo alla BMW.

Innanzitutto chiariamo una cosa: è evidente che vi sono cose che non possiamo controllare. Se vediamo una persona concentrata davanti ad un computer come facciamo a sapere se questa sta cercando di risolvere il problema di un cliente o se sta pensando ai fatti suoi?

Per questo BMW cerca di ricondurre a parametri oggettivi i compensi: la proattività può essere valutata dal numero di mail, di messaggi o telefonate rivolte ai clienti, la qualità dal numero di reclami o lagnanze ricevute, o dal fatto che il cliente rinnova l’acquisto, la precisione dal numero di rifacimenti, ecc.. Ebbene tutti questi parametri non si ottengono osservando il comportamento del lavoratore, ma solo i risultati conseguiti.

Il punto è che la nostra cultura è orientata a valutare comportamenti (come il capo officina che osserva le operazioni fisiche svolte dell’operaio) e non le cose (i risultati derivanti da operazioni per giunta invisibili).

Le aziende dovranno mettere a punto col tempo e sperimentare modelli di riferimento, che ancora non ci sono, ed è per questo che la massima parte delle imprese usa il tempo come riferimento, anche per mestieri non seriali e ripetitivi: se vieni in ufficio e stai otto ore, allora vuol dire che hai lavorato, se stai a casa non hai fatto niente. Chiaro, facile, ma non veritiero.

Cambiare tale impostazione significa contribuire a sviluppare una vera rivoluzione culturale, nel senso perlomeno di cultura aziendale. Dobbiamo insomma rassegnarci a ripensare in termini di risultati attesi il lavoro di tutti i numerosi knowledge worker (lavoratori della conoscenza).

La distinzione non starà più tra dipendenti o professionisti o autonomi o piccoli imprenditori (in questo senso siamo ormai già all’interno di un sistema interclassista), anche la retribuzione (basata sui risultati) avrà una componente maggiormente meritocratica, le distinzioni in base ai contratti tenderanno a sfumare e si dovrà mettere mano a tutti i sistemi di protezione sociale, contribuzione, contratti collettivi, ecc.

La BMW ci sta dicendo che tutto questo sta già succedendo e, come dice il saggio, quando ci accorgiamo che una cosa sta succedendo, vuol dire che è già successa.

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